"Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero" (Oscar Wilde)

20 gennaio 2022

Rachmaninov, secondo me...


"La musica, secondo me,

dev’essere l’espressione della
complessa personalità del compositore.
La musica deve esprimere il paese di
nascita del compositore, i suoi amori,
la sua religiosità, i libri che l’hanno
influenzato, le pitture che ama.
Dev’essere la somma totale delle sue
esperienze.
La musica è una calma notte di luna,
un frusciare estivo di foglie,
uno scampanìo lontano nella sera.
La musica nasce solo dal cuore
e si rivolge al cuore.
È amore.
Sorella della musica è la poesia
e madre la sofferenza"
(Sergej Rachmaninoff)

9 luglio 2020

Caos


Più volte mi chiesi cosa fossimo diventati
nell’enorme spazio governato dal tempo
Innumerevoli punti di domanda, insignificanti parole per spiegare
L’esistenza e le sue ragioni.
Non ebbi mai risposte
ma mi spinsi oltre.
Oltre il cielo, il mare e le rocce 
Al di là delle ampie pianure, dei boschi e di coloro che vi abitano. 
Questa era la vita e la sua bellezza:
il volo di un’aquila su un abisso così profondo da sembrare infinito.

Damiano Franco


7 marzo 2017

Chopin, raccontato da Liszt.


                                                           
 
                                                 
Libro interessante sotto molti aspetti, scritto non proprio benissimo e molto ampolloso per ridondanza poetica e stilistica (sicuramente mano della Wittgenstein nella forma ma non nei contenuti che sono, senza ombra di dubbio, riconducibili a Liszt, e non potrebbe essere diversamente visto che la S.ra Wittgenstein non ha mai conosciuto Chopin, come puntualmente precisa Michele Campanella nella Prefazione) ma mi aspettavo una riflessione più approfondita sull'opera e invece molte pagine risultano sprecate tra voli pindarici e immagini idilliache, anche abbastanza ispirate in verità, ma che poco aggiungono alla curiosità di chi legge. Le pagine più belle, a mio avviso, sono quelle che approfondiscono il contenuto di alcune composizioni, anche se purtroppo non si dilungano mai su aspetti tecnici compositivi. In particolar modo mi sono piaciute le impressioni, soggettive sicuramente, ma efficaci, sul secondo movimento del secondo Concerto per pianoforte e orchestra, quelle sulla Grande Polacca in Fa# minore e quelle sulla genesi del Preludio in Fa# minore, scritto a Maiorca in una notte di tempesta con la George Sand in esplorazione e il povero Chopin a tormentarsi in camera davanti al pianoforte. (appunto arricchito nella decima nota del Capitolo "Lelia").
Riporto qui di seguito un piccolo estratto in cui Franz Liszt scrive della Polacca Op.44 in Fa# minore, ribadendo quanto lui stesso amasse e fosse impressionato da certa musica di Chopin.

"Si potrebbe dire che si tratti del racconto di un sogno, fatto dopo una notte insonne, alle prime luci di un'alba invernale, tetra e grigia. Un sogno-poema, nel quale le impressioni e gli oggetti si succedono con strane incoerenze e strani passaggi, come quelli di cui parla Byron nella poesia intitolata 'A dream':

[...] And dreams in their development have breath,
and tears, and tortures, and the touch of joy;
They leave a weight upon our waking thoughts, [...]
and look like heralds of eternity.

Il motivo principale ha un tono sinistro, come il momento che precede l'uragano. L'orecchio crede di cogliere esclamazioni esasperate, una sfida lanciata a tutti gli elementi. A un tratto, il ritorno prolungato di una tonica, all'inizio di ogni battuta, fa sentire come dei colpi di cannone ripetuti, come una guerra lontana. Dopo questa nota si modulano, battuta per battuta, accordi insoliti. Nei più grandi autori, non conosciamo niente di simile all'effetto sorprendente che produce questo passo, interrotto bruscamente da una scena campestre, da una mazurca dallo stile idilliaco, che sembrerebbe emanare i suoi profumi di lavanda e maggiorana, ma che, invece di cancellare il ricordo del sentimento profondo e infelice che ci coglie all'inizio, con il suo contrasto ironico e amaro aumenta le emozioni di pena provate dall'ascoltatore. Così ci si sente quasi sollevati, quando ritorna la prima frase e si ritrova lo spettacolo grandioso e sconfortante di una lotta fatale, liberata almeno dell'importuna opposizione di una felicità ingenua e ingloriosa! Come un sogno, questa improvvisazione termina soltanto con un fremito sommesso, che lascia lo spirito sotto il dominio di un'impressione unica e forte"

                              

Memorabile interpretazione della Polacca in Fa# minore op.44 di Vladimir Horowitz
                                                       (Carnegie Hall)

Molto interessante anche la descrizione della personalità di Chopin, dal carattere riservato, amabile, grazioso ma impenetrabile. Per certi versi, questo modo di essere si manifesta palesemente nella sua musica, così come nella sua musica e nelle sue arditezze armoniche si palesa il tormento e le convulsioni psico-fisiche che lo hanno accompagnato fino alla morte. La Patria lontana che riecheggia nelle sue Polacche, Mazurche e Ballate, l'amore impossibile per una donna che forse (azzardo) è agli antipodi della personalità dell'artista, il delicato e complicato rapporto con il pubblico (o con la percezione del pubblico?) fanno di Chopin un'icona della Sehnsucht romantica. Amo paragonare Chopin, che per me è sempre stato un oggetto troppo delicato per poter essere suonato o anche semplicemente raccontato da chiunque, ad un souvenir di cristalli posto sullo spigolo di un mobile, e credo che un ringraziamento a Liszt per aver scritto questo libro debba essere fatto. Nonostante la scrittura, a tratti aleatoria, e l'eccessiva attenzione per la forma, queste pagine sono sincere e vi si scorge dentro tanta ammirazione e una punta di commozione. L'umiltà con cui Liszt racconta l'amico polacco è quasi irreale (fa sorridere qualche concessione alla vanità personale quando parla di sue esecuzioni della musica di Chopin talmente impareggiabili da risultare invidiate dallo stesso autore, ma è una debolezza che possiamo perdonare all'ungherese) se si pensa allo spessore di chi scrive. Una nota di merito anche a Campanella che di questo libro scrive la prefazione e che adora Liszt così tanto che ne prende le difese e ne incarna lo spirito come meglio può quando lo suona (peraltro molto bene; l'ho ascoltato al Petruzzelli su Totentanz e secondo Concerto per piano e orchestra proprio pochi mesi fa). Concludendo, penso sia un buon libro che, seppur non appagando pienamente le aspettative del lettore, lascia qualcosa. Lo consiglio a tutti i pianisti.

Su Glenn Gould...





Ho letto il libro "Glenn Gould. Il Bagatto" di Piero Rattalino.
Libro che considero modesto, acquistato insieme a quelli di Horowitz, Michelangeli, Arrau e Richter, e facente parte della collana grandi pianisti, edita da Zecchini e scritta da Piero Rattalino. Di quest'ultimo, avevo già letto "La storia del Pianoforte" e ricordo che mi aveva fatto una buona impressione. Questo libro, però, sebbene lo abbia letto in appena tre giorni - cosa che fa pensare ad un alto gradimento, invece è solo perché mi interessava il soggetto in questione -  mi ha lasciato un po' perplesso. Rattalino tratta bene le argomentazioni e sembra documentarsi con sufficiente attenzione su opera e biografia del pianista canadese (anche se sembra non essere abbastanza sensibile a ciò che legge e ascolta) , però non accetto che un critico musicale esponga così tanto insistentemente i propri gusti, perché il passo dalla critica alla tifoseria da bar è piuttosto breve. Per certi versi sembra che Rattalino voglia un po' sminuire il valore di questo grande artista paragonandolo ad altri pianisti suoi coevi. Mi chiedo perché? Che le interpretazioni di Gould siano stravaganti lo si sapeva già, non c'era bisogno di Rattalino per rendersi conto che la scelta dei tempi, la sonorità non sempre calzante, il fraseggio, e il repertorio (su cui non trovo davvero nulla di male, anzi...) siano "anomali" rispetto alla prassi comune dell'epoca e non solo. Messa così, non ci sarebbe neanche nulla di male. Si può preferire un pianista piuttosto che un altro, è normalissimo e giusto così, ma ciò che mi ha dato profondamente fastidio leggendo alcuni passi del testo è la volontà di sottolineare gli aspetti negativi della personalità (peraltro certamente disturbata) , elencandone bizzarrie e debolezze, e quelli altrettanto negativi delle scelte artistiche, dai fallimenti nel completamento dell'integrale di Beethoven e altri progetti "impunemente abbandonati", alle velocità smisurate in Mozart  (a differenza di Rattalino io considero il K491 di Gould una della incisioni più belle ed equilibrate di quel concerto, ma in questo caso la normalità a Rattalino non basta per tesserne le lodi, perché da Gould ci si aspetta di più, in termini di arditezza, di creatività...che paradosso!) controllate dall'autore del libro con pedantissime annotazioni metronomiche, come se ascoltare musica fosse un po' come pesare carne in macelleria. Tanti altri distinguo, che non mi metto qui ad elencare, ma una cosa davvero non mi è piaciuta e la voglio sottolineare, perché se è vero che un critico - a più di trent'anni dalla morte di un musicista - può permettersi di dirne peste e corna, è anche vero che noi possiamo permetterci di fare una critica della critica, e non per parteggiare per una o per l'altra scelta idealistica o stilistica, ma quantomeno per suggerire a Rattalino (che nell'incipit del libro in questione si autoincensa definendosi "scrittore serio") che quando si recensisce un artista bisogna sempre ricordare che dietro quell'artista c'è una persona in carne ed ossa, fatta di pregi, debolezze, ambizioni, difetti, e dunque va sicuramente rispettata. Quando Rattalino scrive dei dieci intermezzi op. 117 di Brahms , soffermandosi sul primo (che peraltro io trovo squisito) e affermando in tono secco che da queste interpretazioni traspare "quanto fosse estranea a Gould la cognizione del dolore (...) universale..." dimostra di non essere un critico. Ma come si può affermare una cosa del genere? Come si può affermarla conoscendo peraltro il soggetto in questione? Si può dire che il suono non è brahmsiano, preferire Julius Katchen o Sokolov, o Michelangeli, e spiegarne i motivi, si può informare il lettore su quelli che sembrano essere "soggettivamente" i limiti di un'esecuzione, ma non ci si dovrebbe permettere di affermare che un artista dimostra di non sapere cosa sia la sofferenza. Al limite, si potrebbe accettare una critica alla resa pianistica di un particolare sentimento, e cioè che una certa interpretazione non soddisfa a pieno il carattere doloroso, o gioioso o drammatico che voleva esprimere l'autore (anche se pure in questo caso mi verrebbe da chiedere a Rattalino quale sarebbe il metro per misurare la dolorosità di una frase, o di un periodo, e soprattutto mi verrebbe da chiedergli come si può essere così certi che la scelta di questo o di quell'altro pianista sia così tanto dissimile dalla volontà del compositore, come se il sentire una determinata sensazione fosse esprimibile in un solo modo, ma sorvoliamo...) e non lasciarsi andare a queste considerazioni, superficiali e inutili.

17 marzo 2012

Un messaggio di pace

"In musica, come nella vita, possiamo parlare davvero solo delle nostre reazioni e percezioni. E se provo a parlare della musica, è perché l'impossibile mi ha sempre attratto più del difficile" 

(Daniel Barenboim)


Daniel Barenboim, il pianista, direttore, scrittore e ambasciatore delle Nazioni Unite per la Pace.
Maestro Scaligero da diversi anni, è stato nominato Direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano. Un incarico importante, prestigioso e senza dubbio meritato. Per molti italiani, resterà anche il Direttore che ha rivolto, per la prima volta nella storia del Teatro Alla Scala, un appello alle autorità e al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, esprimendo le proprie perplessità verso i tagli alla cultura previsti dall'allora Governo Berlusconi. 
Era il 7 Dicembre 2010; prima di dirigere "La Valchiria" di R.Wagner, in occasione della "Prima" stagionale, Barenboim disse: "Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori: sono molto felice di dirigere anche quest'anno il sette Dicembre alla Scala, sono molto onorato di essere stato dichiarato "Maestro Scaligero". Per tale titolo, ma anche a nome di tutti i miei colleghi che suonano, cantano, ballano, e lavorano non soltanto in questo magnifico teatro, ma in tutti i teatri di Italia, per dirvi a qual punto siamo profondamente preoccupati per il futuro della cultura nel nostro paese e in Europa, e se mi permettete, vorrei che ricordassimo insieme l'art.9 della Costituzione Italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."

Insomma, di certo non si può dire che Barenboim non sia uno tosto. In un periodo di lunghe e tormentose contestazioni all'operato dell'allora Governo Berlusconi e nello specifico a quello del Ministro dei beni e delle attività culturali, Sandro Bondi, vittima sacrificale - secondo lui - e dimissionario a giorni alterni, ma poi dimessosi veramente solo tre mesi dopo, le parole di Barenboim suonano come una vera e propria bocciatura del Governo.

In "La musica sveglia il tempo" libro che è di qualche anno fa (2007) , Barenboim entra a gamba tesa sul nostro sistema attaccando inevitabilmente, sempre con garbo e pacatezza (quanto ammiro quest'uomo!) quello che dovrebbe essere il motore del rilancio culturale-musicale dei paesi occidentali: la Scuola. Così scrive:

"Dalla musica si può apprendere un'incredibile quantità di cose utili per la vita, eppure il nostro attuale sistema di istruzione trascura del tutto questo campo, dall'asilo fino agli ultimi anni di scuola. Persino nelle scuole di musica e nei conservatori l'istruzione è altamente specializzata e spesso risulta scollegata dal contenuto effettivo della musica, e quindi dalla sua forza. La disponibilità di registrazioni e di riprese di concerti e opere è inversamente proporzionale alla scarsità di conoscenza e comprensione della musica prevalente nella nostra società. L'attuale sistema della pubblica istruzione è responsabile del fatto che la maggioranza della popolazione può ascoltare qualsiasi pezzo musicale a piacimento ma è incapace di concentrarvisi pienamente. L'educazione all'ascolto forse è molto più importante di quello che possiamo immaginare, non solo per lo sviluppo di ogni individuo, ma anche per il funzionamento della società nel suo complesso, e quindi anche dei governi. il talento musicale, la comprensione della musica e l'intelligenza auditiva  sono aree spesso separate dal resto della vita umana, confinate nella funzione di intrattenimento o nel regno esoterico dell'arte d'élite. L'abilità di ascoltare diverse voci insieme cogliendo l'esposizione di ciascuna di esse separatamente, la capacità di ricordare un tema che fece la sua ricomparsa per poi subire un lungo processo di trasformazione, e che ora ricompare in una luce differente, la competenza uditiva necessaria per riconoscere le variazioni geometriche del soggetto di una fuga sono tutte qualità che accrescono la comprensione. Forse l'effetto cumulativo di tali capacità e competenze potrebbe formare esseri umani più adatti ad ascoltare e a comprendere punti di vista diversi fra loro, esseri umani più abili nel valutare il proprio posto nella società e nella storia, esseri umani più pronti a cogliere non le differenze fra loro ma le somiglianze fra tutti."

L'Educazione musicale intesa come la intende Barenboim ha una valenza sociologica molto alta; l'analogia tra il linguaggio verbale e quello musicale è azzeccatissima e non fa altro che confermare quello che studi scientifici hanno dimostrato da tempo, cioè che lo studio della musica contribuisce notevolmente allo sviluppo dell'apprendimento e della comprensione che non devono restare fini a sè stessi ma, in un vero e proprio "transfert situazionale" ( e con questo intendo il trasferimento in ambito sociale delle capacità di ascolto e dialogo acquisite nell'esperienza musicale) devono facilitare le dinamiche di cooperazione relazionale all'interno della società. L'impegno di Daniel Barenboim in questo senso è testimoniato non solo dalle sue parole ma anche dal suo operato. La sua Orchestra, la West-Eastern Divan Orchestra, fondata nel 1999 assieme allo scrittore palestinese-statunitense Edward Said (scomparso nel 2003) , testimonia l'impegno del Maestro Barenboim nella realizzazione di un progetto più ampio e ambizioso: la Pace.
Figlio di ebrei russi, Barenboim non poteva certo rimanere estraneo alla questione israelo-arabo/palestinese.
La West-Eastern Divan Orchestra prende il nome da una raccolta poetica di Wolfgang Goethe, la West-Eastern Divan (Divano occidentale-orientale) appunto, che il genio tedesco aveva scritto, dopo essere venuto a contatto con una pagina del Corano, interessandosi per primo dunque ad una cultura estranea, un'altra cultura, quella islamica.
L'orchestra fu pensata come contenitore di umanità contrastante, oserei dire,  quindi include palestinesi, israeliani, siriani, libanesi, giordani, egiziani. Il workshop inizialmente tenuto a Weimar, fu spostato grazie alla volontà e alla disponibilità di Manuel Chavez (presidente della regione Andalusia) a Siviglia; una scelta simbolica considerando la storica convivenza tra ebrei e musulmani (e cristiani) in Spagna e in Andalusia in particolar modo, che contribuì allo sviluppo della cultura ispanica. Suonando in tutto il mondo, suonando insieme, suonando Wagner, che già di per sé costituisce motivo di orgoglio e forza per un israeliano (la musica wagneriana è ancora un tabù per molti israeliani, e lo è per vari motivi, dal dichiarato antisemitismo presente ne "Il Giudaismo nella musica" del musicista tedesco, all'associazione nazista tra Wagner-Hitler, al ricordo doloroso dell'uso della sua musica nei campi di concentramento tedeschi ) e soprattutto suonando, nel 2005, a Ramallah, nel cuore della Palestina, il progetto di Barenboim ed Edward Said prende forma. A Ramallah, come racconta Barenboim nel libro, fu una scelta coraggiosissima e provocò non poche preoccupazioni soprattutto tra le famiglie degli orchestrali israeliani per ovvi motivi di sicurezza e paura di eventuali attentati ( pensate cosa possa significare suonare in quel posto per un israeliano) ma, con le dovute precauzioni, il concerto fu un grande successo. E' stato un evento storico e simbolico che deve farci riflettere. Nella musica non esistono distinzioni, non esistono razze, non esiste nient'altro che non sia la Musica. 
Barenboim, tra le sue pagine, puntualizza che ovviamente l'idea di creare un'orchestra dei paesi mediorientali in conflitto è un progetto che non può pretendere di portare la pace, però può rappresentare un punto di partenza per la vicinanza e per il dialogo. 
D'altronde, mi permetto di aggiungere, a dividere in Medio Oriente non c'è solo un pezzo di terra ma ben altro: il proprio credo, la propria identità, cultura, tradizione, e quindi cosa c'è di meglio della musica - autentica "summa" che raccoglie lo spirito dei popoli di questo pianeta - per poter avviare un processo di avvicinamento tra la varie parti? Partire da ciò che il Beethoven definirebbe " la rivelazione più alta di ogni filosofia, di ogni saggezza"  cioè la Musica per raggiungere scopi così alti e nobili, è o non è il dovere di un musicista? Il germe delle risposte alle mie domande lo voglio scovare nelle parole del Maestro Barenboim: 


"Ogni membro della West-Eastern Divan Orchestra, indipendentemente dalle sue origini, partecipando al workshop dimostra di possedere una straordinaria dose di coraggio, di comprensione, di visione ideale. Così mi piace considerare questi giovani come i pionieri di un nuovo modo di pensare il Medio Oriente." 

(Daniel Barenboim)

Concludo postando un video della W-E Divan Orchestra diretta da Barenboim.
Wagner, Liebestod dal Tristano e Isotta
Una musica meravigliosa, un messaggio di pace.





D.F.

18 ottobre 2011

Quest'Italia non ha più orecchio.

Siamo alle solite. L'ennesimo appello di chi vorrebbe la Musica al posto che le spetta. Nell'Olimpo? no, a quello ci pensa il creato, e siamo certi che un posto importante le è riservato "naturalmente" senza bisogno di particolari manovre, ma nella scuola italiana, di ogni ordine e grado; questa sì che ci sembra una richiesta legittima e non ci stancheremo mai di chiedere. Posto un articolo di Quirino Principe, docente di Storia della musica e musicologia, critico musicale, traduttore e saggista italiano, pubblicato su "Il Sole 24 ore" (11 Settembre 2011). E' una visione lucida delle condizioni della musica "forte" - come lui stesso si affretta a definire, spiegando anche le motivazioni di tale terminologia proposta - in Italia, e soprattutto dell'oscuro destino che aleggia su musica e cultura di questo paese.

Siamo in un teatro, nell'intervallo di un concerto. Cominciano a rientrare gli orchestrali. Sono bravi, questi giovani! E' bello vederli. Anche l'Italia può essere bella, se la cogliamo nel luogo giusto e all'ora giusta. li osserviamo: un fiorire di teste brune, castane, bionde, capelli ricci o tagliati a spazzola o code di cavallo e chiome d'angelo lunghe e lisce... Ci volgiamo alla platea. Vediamo un mare di teste canute, ritinte, calve, spelacchiate, e sotto quall'albedo chiazzata di bianco d'uovo e di bianchiccio e di giallastro malsano e di grigiastro, vediamo fronti macchiettate sopra occhiaie scavate, rassegnate, tristi, rancorose, e sotto quella nigredo indoviniamo membra risecchite o gonfie, gambe malferme, abiti di risibile eleganza. Questo è il pubblico della musica forte, oggi in Italia. A mano a mano che madre Natura decreta, quel pubblico si sfoltisce, si accartoccia, va in briciole e in polvere come la "povera foglia frale" di Arnault ridisegnata da Leopardi. E le nuove generazioni? No, da molti decenni, quel pubblico non si rinnova più. Non c'è il ricambio, del quale, fino a quarant'anni fa, c'era almeno l'illusione ottica. Quando tutti i canuti e ritinti saranno volati in cielo sarà finita. Non ci sarà più pubblico. Per la musica "forte", in Italia, pare non esserci speranza. Sì, "forte": è in corso la nostra battaglia per sostituire questo aggettivo a locuzioni improprie e fuorvianti, "musica classica", o"seria", o "colta", e ci sorprende piacevolmente (questo, almeno!) che i nostri sforzi stiano ottenendo udienza al di là di ogni speranza: una casa discografica ha dichiarato, aprendo il suo catalogo, di voler usare, d'ora in poi, la terminologia da noi proposta. "Forte" è la musica dotata della massima energia. Suscita traumi, estasi, sensazioni forti, come il terribile accordo dissonante che apre il Finale della Nona di Beethoven, come il Lamento di Arianna di Monteverdi il cui "Lasciatemi morire" è il decollo di un'astronave. La "musica debole" (non "leggera" o peggio "popolare"), si fonda sulla ripetitività, sul sottofondo, su banali sensazioni. Forte e debole non s'intendano come aut-aut: sono qualità estreme, entrambe legittime, agli opposti di una serie di gradazioni. Si chiede soltanto che la musica debole e banale non spinga ai margini la musica energica e inventiva. In verità, previsioni e proiezioni comprensibili anche a uno scolaro di seconda elementare indicano che, continuando immutato il corso dei fenomeni, la musica forte è destinata a scomparire, e con essa ogni traccia della tradizione musicale italiana (che per molti aspetti è europea, mondiale). 
Una catastrofe. Sarebbe possibile scongiurarla, e anzi rovesciare la tendenza. Basta domandarsi quale sia il differenziale, in materia, tra l'Italia e qualsiasi altro ordinamento statale in cui esistano democrazia e civilizzazione. Risposta: a parte quei paesi islamici in cui la musica è reato e peccato, haram (di quella subcultura non fanno parte, per esempio, la Turchia o la maggioritaria comunità islamica d'Albania, paese musicalissimo), l'Italia è l'unico Stato nel mondo in cui la musica non sia insegnata in tutte le scuole di ogni ordine e rango, e non limitata alle scuole specializzate. Poi ci si domanda come mai nel Paese del Bel Canto non nascano più nativi musicali, e come mai nelle famiglie non ci siano genitori o zii che facciano musica amatoriale! Se una disciplina è insegnata soltanto in sedi circoscritte, e al massimo livello scientifico, come l'egittologia o il restauro di libri antichi, e non entra nel circuito della della cultura diffusa, essa è un tesoro che si spera bene custodito, ma la sua presenza nella società è nulla. Dunque, se questo è il differenziale, abbiamo individuato "more geometrico" il dovere che i legislatori italiani si dovrebbero assumere: introdurre finalmente l'insegnamento della musica in tutte le scuole pubbliche d'Italia, a qualsiasi grado. Sarebbe un'innovazione a costo zero, e chiunque neghi quest'ultimo connotato è da noi sfidato a un pubblico contraddittorio, con ampia facoltà di prova.
Così ci siamo avvicinati a un nervo scoperto: legislatori di diverso orientamento politico sono sollecitati, da musicisti di assoluto prestigio e persino di fama mediatica, come Uto Ughi, Riccardo Muti, Salvatore Accardo a compiere l'atto che avrebbe effetti decisivi, rovesciando un desolante destino: introdurre la musica in tutte le scuole d'Italia. Reagiscono come sappiamo: sono sordi, ciechi e muti. Alcuni di loro, quasi scusandosi, sussurrano che "non è il momento", che "il Parlamento ha ben altro a cui pensare"...ma in qualsiasi circostanza, con la massima stabilità politica e con il Pil alle stelle e una crescita annua del 126,9 %, la loro risposta sarebbe la stessa: avrebbero ben altro cui badare. 

  Intervista al celebre violinista Salvatore Accardo.
 "Il Messaggero, 11 ottobre 2011"

Le vere ragioni che condannano all'estinzione la musica forte non sono finanziarie né contabili: sono culturali. Questa certezza ci indica probabilmente un altro interlocutore. Colui che oggi è Presidente della Repubblica italiana è, più che i suoi predecessori, attento alla realtà culturale, e sa perfettamente che il nucleo essenziale di ciò che l'Italia è e potrà essere è la cultura. E' retorico appellarsi a lui? Può darsi, ma l'alternativa è la catastrofe. Sappiamo con certezza come al Presidente non sfugga una finzione primaria della musica: l'essere l'anello di congiunzione tra scienze dure e scienze molli, il trasmettere energia cognitiva, il far capire meglio, a chi segua gli studi musicali, la matematica e la pittura, la fisica e l'architettura, la cosmologia e la poesia o la psicologia. Gli è certamente noto come una vertiginosa sapienza antica (Platone, Quintiliano, Marco Aurelio...) abbia dichiarato incompetente e maldestro l'uomo che, senza conoscere a fondo la musica, si dedichi al governo dello Stato. 
Vogliamo gettare la musica nell'immondezzaio della Storia?

Quirino Principe

9 novembre 2010

Parola di Arrau


Leggevo un po' di tempo fa un bellissimo libro: "Conversazioni con Arrau" di Joseph Horowitz.
Come ci rivela il titolo, trattasi di colloqui avvenuti tra il maggio 1980 e il luglio 1981 a Douglaston e nel Vermont tra Joseph Horowitz (scrittore, saggista e giornalista eminente della musica americana) e Claudio Arrau León, pianista cileno, uno dei migliori interpreti del ventesimo secolo. Il libro è molto interessante, le conversazioni, registrate e trascritte fedelmente, rispettando il linguaggio, il lessico e le interazioni del pianista, si svolgono quasi in forma di intervista - domanda-risposta - ed affrontano varie tematiche: dall'infanzia, il successo del bambino-prodigio, la maturità, la tecnica pianistica, il repertorio ecc...Quello che mi ha maggiormente colpito leggendo queste conversazioni è stata la parte relativa al periodo di vita venuto post-mortem di Martin Krause, l'insegnante di Arrau, segnato dalla crisi personale e artistica del pianista cileno, culminata in un periodo di cura psicoanalitica con il dottor Hubert Abrahamsohn.
Mi ha stupito la sincerità e la schiettezza con cui Arrau parla dell'attaccamento al suo insegnante, dell'affetto, della stima e del conseguente smarrimento provocato dalla sua scomparsa. Ma più di tutto mi ha stupito la sincerità nel raccontarsi, non solo come artista, ma anche come uomo. Si possono trarre insegnamenti preziosi dai grandi uomini, questo lo si sa con certezza, ed è palese che leggendo alcune righe di queste conversazioni si possa capire meglio il rapporto uomo/artista-pubblico.
Quante volte, e mi rivolgo ai musicisti, vi sarà capitato di sentirvi soli su quello sgabello, davanti al vostro strumento. L'ansia, la paura di sbagliare, il senso di colpa, la temibilissima memoria che sfugge quando proprio non dovrebbe, le mani che tremano, il battito del cuore aumenta...Sono tutte sensazioni che un musicista conosce bene. Sono emozioni terribili ma bellissime nello stesso tempo. Apprezzabili soprattutto quando cala il sipario, quando si spengono le luci e tutto è passato. Ed è bello quando qualche anno dopo ti tornano nella mente, un po' offuscate dal tempo trascorso. Un sorriso si dipinge sui vostri volti, ( ne sono certo ) quando pensate alle paure vissute in quegli attimi.
Ho postato una piccola parte del libro di cui vi parlo. Non ho riportato le domande di J. Horowitz (non me ne voglia!), ma ho estrapolato solo le risposte ( quelle per me più significative ) , quindi sembrerà un monologo che non è.


"Bisogna voler suonare in pubblico non al 100% , perchè non esiste, ma almeno al 90%. Al di sotto di questa percentuale, qualche volta può riuscire fatale (...) Mi sono reso conto, grazie all'analisi, che le difficoltà nelle quali mi dibattevo dipendevano dalla mia vanità. (...) Intendo vanità non nel senso di essere presuntuoso, bensì di voler piacere. E questo dipende certamente dall'insicurezza. (...) 
Quando si è molto giovani non ci si rende conto di essere osservati, e la cosa non ha alcuna importanza. 
Ma con gli anni ci si comincia a chiedere che cosa pensi la gente. (...) Essere una persona umana vuol dire essere ansiosa. E' ridicolo comportarsi come se non lo si fosse, come se non si provasse panico prima di salire sul palcoscenico. Ho dovuto imparare a vivere con le mie ansie (...) Qualcuno crede di potersi liberare dall'ansia, compiendo uno sforzo terribile per non accettarla. Ma l'ansia c'è sempre. Se uno si sente troppo spavaldo, o troppo sicuro di sè, allora c'è qualcosa che non va (...)
Io credo che provare ansia, l'ansia dell'umanità, renda una persona capace di condividere qualunque tipo di sentimento umano. L'empatia è una delle qualità più importanti in un interprete (...)
Con il tempo ho imparato che si dovrebbe semplicemente lasciare che le cose accadano, senza preoccuparsi molto di accontentare il pubblico, di avere successo. In questo caso l'ansia cessa di essere un impedimento e può diventare parte della creatività (...) Quasi ogni interprete deve lottare contro la tentazione di far fiasco (...)
Un tempo pensavo che fosse la fine del mondo e a volte ci mettevo dei mesi per riprendermi. Volevo essere perfetto, divino, al di sopra di ogni imperfezione o errore di memoria. Ma questo produce l'effetto contrario, sempre. Ora non mi angoscio più.
Bisogna dire a se stessi: « E' ridicolo essere così preoccupati, non sono infallibile » "                             

(Claudio Arrau)

E' l'esperienza di un grande ed è tutta racchiusa in poche parole. Il resto Claudio Arrau lo ha detto con le dita.

D.F.