"Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero" (Oscar Wilde)

7 marzo 2017

Su Glenn Gould...





Ho letto il libro "Glenn Gould. Il Bagatto" di Piero Rattalino.
Libro che considero modesto, acquistato insieme a quelli di Horowitz, Michelangeli, Arrau e Richter, e facente parte della collana grandi pianisti, edita da Zecchini e scritta da Piero Rattalino. Di quest'ultimo, avevo già letto "La storia del Pianoforte" e ricordo che mi aveva fatto una buona impressione. Questo libro, però, sebbene lo abbia letto in appena tre giorni - cosa che fa pensare ad un alto gradimento, invece è solo perché mi interessava il soggetto in questione -  mi ha lasciato un po' perplesso. Rattalino tratta bene le argomentazioni e sembra documentarsi con sufficiente attenzione su opera e biografia del pianista canadese (anche se sembra non essere abbastanza sensibile a ciò che legge e ascolta) , però non accetto che un critico musicale esponga così tanto insistentemente i propri gusti, perché il passo dalla critica alla tifoseria da bar è piuttosto breve. Per certi versi sembra che Rattalino voglia un po' sminuire il valore di questo grande artista paragonandolo ad altri pianisti suoi coevi. Mi chiedo perché? Che le interpretazioni di Gould siano stravaganti lo si sapeva già, non c'era bisogno di Rattalino per rendersi conto che la scelta dei tempi, la sonorità non sempre calzante, il fraseggio, e il repertorio (su cui non trovo davvero nulla di male, anzi...) siano "anomali" rispetto alla prassi comune dell'epoca e non solo. Messa così, non ci sarebbe neanche nulla di male. Si può preferire un pianista piuttosto che un altro, è normalissimo e giusto così, ma ciò che mi ha dato profondamente fastidio leggendo alcuni passi del testo è la volontà di sottolineare gli aspetti negativi della personalità (peraltro certamente disturbata) , elencandone bizzarrie e debolezze, e quelli altrettanto negativi delle scelte artistiche, dai fallimenti nel completamento dell'integrale di Beethoven e altri progetti "impunemente abbandonati", alle velocità smisurate in Mozart  (a differenza di Rattalino io considero il K491 di Gould una della incisioni più belle ed equilibrate di quel concerto, ma in questo caso la normalità a Rattalino non basta per tesserne le lodi, perché da Gould ci si aspetta di più, in termini di arditezza, di creatività...che paradosso!) controllate dall'autore del libro con pedantissime annotazioni metronomiche, come se ascoltare musica fosse un po' come pesare carne in macelleria. Tanti altri distinguo, che non mi metto qui ad elencare, ma una cosa davvero non mi è piaciuta e la voglio sottolineare, perché se è vero che un critico - a più di trent'anni dalla morte di un musicista - può permettersi di dirne peste e corna, è anche vero che noi possiamo permetterci di fare una critica della critica, e non per parteggiare per una o per l'altra scelta idealistica o stilistica, ma quantomeno per suggerire a Rattalino (che nell'incipit del libro in questione si autoincensa definendosi "scrittore serio") che quando si recensisce un artista bisogna sempre ricordare che dietro quell'artista c'è una persona in carne ed ossa, fatta di pregi, debolezze, ambizioni, difetti, e dunque va sicuramente rispettata. Quando Rattalino scrive dei dieci intermezzi op. 117 di Brahms , soffermandosi sul primo (che peraltro io trovo squisito) e affermando in tono secco che da queste interpretazioni traspare "quanto fosse estranea a Gould la cognizione del dolore (...) universale..." dimostra di non essere un critico. Ma come si può affermare una cosa del genere? Come si può affermarla conoscendo peraltro il soggetto in questione? Si può dire che il suono non è brahmsiano, preferire Julius Katchen o Sokolov, o Michelangeli, e spiegarne i motivi, si può informare il lettore su quelli che sembrano essere "soggettivamente" i limiti di un'esecuzione, ma non ci si dovrebbe permettere di affermare che un artista dimostra di non sapere cosa sia la sofferenza. Al limite, si potrebbe accettare una critica alla resa pianistica di un particolare sentimento, e cioè che una certa interpretazione non soddisfa a pieno il carattere doloroso, o gioioso o drammatico che voleva esprimere l'autore (anche se pure in questo caso mi verrebbe da chiedere a Rattalino quale sarebbe il metro per misurare la dolorosità di una frase, o di un periodo, e soprattutto mi verrebbe da chiedergli come si può essere così certi che la scelta di questo o di quell'altro pianista sia così tanto dissimile dalla volontà del compositore, come se il sentire una determinata sensazione fosse esprimibile in un solo modo, ma sorvoliamo...) e non lasciarsi andare a queste considerazioni, superficiali e inutili.

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