"Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero" (Oscar Wilde)

7 marzo 2017

Chopin, raccontato da Liszt.


                                                           
 
                                                 
Libro interessante sotto molti aspetti, scritto non proprio benissimo e molto ampolloso per ridondanza poetica e stilistica (sicuramente mano della Wittgenstein nella forma ma non nei contenuti che sono, senza ombra di dubbio, riconducibili a Liszt, e non potrebbe essere diversamente visto che la S.ra Wittgenstein non ha mai conosciuto Chopin, come puntualmente precisa Michele Campanella nella Prefazione) ma mi aspettavo una riflessione più approfondita sull'opera e invece molte pagine risultano sprecate tra voli pindarici e immagini idilliache, anche abbastanza ispirate in verità, ma che poco aggiungono alla curiosità di chi legge. Le pagine più belle, a mio avviso, sono quelle che approfondiscono il contenuto di alcune composizioni, anche se purtroppo non si dilungano mai su aspetti tecnici compositivi. In particolar modo mi sono piaciute le impressioni, soggettive sicuramente, ma efficaci, sul secondo movimento del secondo Concerto per pianoforte e orchestra, quelle sulla Grande Polacca in Fa# minore e quelle sulla genesi del Preludio in Fa# minore, scritto a Maiorca in una notte di tempesta con la George Sand in esplorazione e il povero Chopin a tormentarsi in camera davanti al pianoforte. (appunto arricchito nella decima nota del Capitolo "Lelia").
Riporto qui di seguito un piccolo estratto in cui Franz Liszt scrive della Polacca Op.44 in Fa# minore, ribadendo quanto lui stesso amasse e fosse impressionato da certa musica di Chopin.

"Si potrebbe dire che si tratti del racconto di un sogno, fatto dopo una notte insonne, alle prime luci di un'alba invernale, tetra e grigia. Un sogno-poema, nel quale le impressioni e gli oggetti si succedono con strane incoerenze e strani passaggi, come quelli di cui parla Byron nella poesia intitolata 'A dream':

[...] And dreams in their development have breath,
and tears, and tortures, and the touch of joy;
They leave a weight upon our waking thoughts, [...]
and look like heralds of eternity.

Il motivo principale ha un tono sinistro, come il momento che precede l'uragano. L'orecchio crede di cogliere esclamazioni esasperate, una sfida lanciata a tutti gli elementi. A un tratto, il ritorno prolungato di una tonica, all'inizio di ogni battuta, fa sentire come dei colpi di cannone ripetuti, come una guerra lontana. Dopo questa nota si modulano, battuta per battuta, accordi insoliti. Nei più grandi autori, non conosciamo niente di simile all'effetto sorprendente che produce questo passo, interrotto bruscamente da una scena campestre, da una mazurca dallo stile idilliaco, che sembrerebbe emanare i suoi profumi di lavanda e maggiorana, ma che, invece di cancellare il ricordo del sentimento profondo e infelice che ci coglie all'inizio, con il suo contrasto ironico e amaro aumenta le emozioni di pena provate dall'ascoltatore. Così ci si sente quasi sollevati, quando ritorna la prima frase e si ritrova lo spettacolo grandioso e sconfortante di una lotta fatale, liberata almeno dell'importuna opposizione di una felicità ingenua e ingloriosa! Come un sogno, questa improvvisazione termina soltanto con un fremito sommesso, che lascia lo spirito sotto il dominio di un'impressione unica e forte"

                              

Memorabile interpretazione della Polacca in Fa# minore op.44 di Vladimir Horowitz
                                                       (Carnegie Hall)

Molto interessante anche la descrizione della personalità di Chopin, dal carattere riservato, amabile, grazioso ma impenetrabile. Per certi versi, questo modo di essere si manifesta palesemente nella sua musica, così come nella sua musica e nelle sue arditezze armoniche si palesa il tormento e le convulsioni psico-fisiche che lo hanno accompagnato fino alla morte. La Patria lontana che riecheggia nelle sue Polacche, Mazurche e Ballate, l'amore impossibile per una donna che forse (azzardo) è agli antipodi della personalità dell'artista, il delicato e complicato rapporto con il pubblico (o con la percezione del pubblico?) fanno di Chopin un'icona della Sehnsucht romantica. Amo paragonare Chopin, che per me è sempre stato un oggetto troppo delicato per poter essere suonato o anche semplicemente raccontato da chiunque, ad un souvenir di cristalli posto sullo spigolo di un mobile, e credo che un ringraziamento a Liszt per aver scritto questo libro debba essere fatto. Nonostante la scrittura, a tratti aleatoria, e l'eccessiva attenzione per la forma, queste pagine sono sincere e vi si scorge dentro tanta ammirazione e una punta di commozione. L'umiltà con cui Liszt racconta l'amico polacco è quasi irreale (fa sorridere qualche concessione alla vanità personale quando parla di sue esecuzioni della musica di Chopin talmente impareggiabili da risultare invidiate dallo stesso autore, ma è una debolezza che possiamo perdonare all'ungherese) se si pensa allo spessore di chi scrive. Una nota di merito anche a Campanella che di questo libro scrive la prefazione e che adora Liszt così tanto che ne prende le difese e ne incarna lo spirito come meglio può quando lo suona (peraltro molto bene; l'ho ascoltato al Petruzzelli su Totentanz e secondo Concerto per piano e orchestra proprio pochi mesi fa). Concludendo, penso sia un buon libro che, seppur non appagando pienamente le aspettative del lettore, lascia qualcosa. Lo consiglio a tutti i pianisti.

Su Glenn Gould...





Ho letto il libro "Glenn Gould. Il Bagatto" di Piero Rattalino.
Libro che considero modesto, acquistato insieme a quelli di Horowitz, Michelangeli, Arrau e Richter, e facente parte della collana grandi pianisti, edita da Zecchini e scritta da Piero Rattalino. Di quest'ultimo, avevo già letto "La storia del Pianoforte" e ricordo che mi aveva fatto una buona impressione. Questo libro, però, sebbene lo abbia letto in appena tre giorni - cosa che fa pensare ad un alto gradimento, invece è solo perché mi interessava il soggetto in questione -  mi ha lasciato un po' perplesso. Rattalino tratta bene le argomentazioni e sembra documentarsi con sufficiente attenzione su opera e biografia del pianista canadese (anche se sembra non essere abbastanza sensibile a ciò che legge e ascolta) , però non accetto che un critico musicale esponga così tanto insistentemente i propri gusti, perché il passo dalla critica alla tifoseria da bar è piuttosto breve. Per certi versi sembra che Rattalino voglia un po' sminuire il valore di questo grande artista paragonandolo ad altri pianisti suoi coevi. Mi chiedo perché? Che le interpretazioni di Gould siano stravaganti lo si sapeva già, non c'era bisogno di Rattalino per rendersi conto che la scelta dei tempi, la sonorità non sempre calzante, il fraseggio, e il repertorio (su cui non trovo davvero nulla di male, anzi...) siano "anomali" rispetto alla prassi comune dell'epoca e non solo. Messa così, non ci sarebbe neanche nulla di male. Si può preferire un pianista piuttosto che un altro, è normalissimo e giusto così, ma ciò che mi ha dato profondamente fastidio leggendo alcuni passi del testo è la volontà di sottolineare gli aspetti negativi della personalità (peraltro certamente disturbata) , elencandone bizzarrie e debolezze, e quelli altrettanto negativi delle scelte artistiche, dai fallimenti nel completamento dell'integrale di Beethoven e altri progetti "impunemente abbandonati", alle velocità smisurate in Mozart  (a differenza di Rattalino io considero il K491 di Gould una della incisioni più belle ed equilibrate di quel concerto, ma in questo caso la normalità a Rattalino non basta per tesserne le lodi, perché da Gould ci si aspetta di più, in termini di arditezza, di creatività...che paradosso!) controllate dall'autore del libro con pedantissime annotazioni metronomiche, come se ascoltare musica fosse un po' come pesare carne in macelleria. Tanti altri distinguo, che non mi metto qui ad elencare, ma una cosa davvero non mi è piaciuta e la voglio sottolineare, perché se è vero che un critico - a più di trent'anni dalla morte di un musicista - può permettersi di dirne peste e corna, è anche vero che noi possiamo permetterci di fare una critica della critica, e non per parteggiare per una o per l'altra scelta idealistica o stilistica, ma quantomeno per suggerire a Rattalino (che nell'incipit del libro in questione si autoincensa definendosi "scrittore serio") che quando si recensisce un artista bisogna sempre ricordare che dietro quell'artista c'è una persona in carne ed ossa, fatta di pregi, debolezze, ambizioni, difetti, e dunque va sicuramente rispettata. Quando Rattalino scrive dei dieci intermezzi op. 117 di Brahms , soffermandosi sul primo (che peraltro io trovo squisito) e affermando in tono secco che da queste interpretazioni traspare "quanto fosse estranea a Gould la cognizione del dolore (...) universale..." dimostra di non essere un critico. Ma come si può affermare una cosa del genere? Come si può affermarla conoscendo peraltro il soggetto in questione? Si può dire che il suono non è brahmsiano, preferire Julius Katchen o Sokolov, o Michelangeli, e spiegarne i motivi, si può informare il lettore su quelli che sembrano essere "soggettivamente" i limiti di un'esecuzione, ma non ci si dovrebbe permettere di affermare che un artista dimostra di non sapere cosa sia la sofferenza. Al limite, si potrebbe accettare una critica alla resa pianistica di un particolare sentimento, e cioè che una certa interpretazione non soddisfa a pieno il carattere doloroso, o gioioso o drammatico che voleva esprimere l'autore (anche se pure in questo caso mi verrebbe da chiedere a Rattalino quale sarebbe il metro per misurare la dolorosità di una frase, o di un periodo, e soprattutto mi verrebbe da chiedergli come si può essere così certi che la scelta di questo o di quell'altro pianista sia così tanto dissimile dalla volontà del compositore, come se il sentire una determinata sensazione fosse esprimibile in un solo modo, ma sorvoliamo...) e non lasciarsi andare a queste considerazioni, superficiali e inutili.